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Quello che serve è l’essenziale

12 Luglio 2021 - Città del Vaticano - La prima volta di papa Francesco, Angelus dal Policlinico Gemelli, da quel Vaticano terzo che ha visto, 22 volte, Giovanni Paolo II rivolgersi alle persone presenti nel piazzale dell’ospedale, nel corso dei suoi dieci ricoveri, il primo, il 13 maggio 1981. Tre anni più tardi, 11 febbraio 1984, ecco la Lettera apostolica Salvifici doloris, sul significato e valore della sofferenza, nella quale afferma: “il Redentore stesso ha scritto il Vangelo della sofferenza con la propria sofferenza assunta per amore, affinché l’uomo non muoia ma abbia la vita eterna”. E ancora: “nella sofferenza, dunque, si nasconde una forza particolare che avvicina interiormente l’uomo a Cristo […] nella sofferenza si diventa un uomo completamente nuovo”. Quando il corpo è “profondamente malato, inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere ed agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali”. Potremmo definirle parole profetiche pensando agli ultimi anni del pontificato wojtyliano quando il male lo bloccò nei movimenti, prima di impedirgli anche di parlare. È quel Vangelo “superiore”, come dirà all’Angelus il 29 maggio 1994, di ritorno in Vaticano dopo l’operazione al femore, appunto il “Vangelo della sofferenza”. Nei suoi ultimi giorni di malattia e sofferenza Giovanni Paolo II ha insegnato a credenti e non credenti la dignità della persona umana malata e sofferente. Papa Francesco aggiunge altro significato a quel valore salvifico della sofferenza. Angelus che recita dal balconcino del decimo piano del Gemelli, avendo accanto alcuni malati, commenta il Vangelo di Marco, l’invio a due a due dei discepoli, i quali “ungevano con olio molti infermi e li guarivano”. Subito il pensiero va al sacramento dell’unzione dei malati “che dà conforto allo spirito e al corpo”; ma quest’olio, dice Francesco, “è anche l’ascolto, la vicinanza, la premura, la tenerezza di chi si prende cura della persona malata: è come una carezza che fa stare meglio, lenisce il dolore e risolleva. Tutti noi, tutti, abbiamo bisogno prima o poi di questa ‘unzione’ della vicinanza e della tenerezza, e tutti possiamo donarla a qualcun altro, con una visita, una telefonata, una mano tesa a chi ha bisogno di aiuto. Ricordiamo che, nel protocollo del giudizio finale – Matteo 25 – una delle cose che ci domanderanno sarà la vicinanza agli ammalati”. Quindi è saluto, apprezzamento e incoraggiamento a medici e operatori sanitari del Gemelli e di tutti gli ospedali per il loro lavoro; e preghiera per i malati, per i bambini malati – “perché soffrono i bambini è una domanda che tocca il cuore” – per tutti i malati “specialmente per quelli in condizioni più difficili: nessuno sia lasciato solo, ognuno possa ricevere l’unzione dell’ascolto, della vicinanza, della tenerezza, e della cura”. L’Angelus è anche occasione, per il vescovo di Roma, di sottolineare l’importanza di un buon servizio sanitario “accessibile a tutti, come c’è in Italia e in altri Paesi. Un servizio sanitario gratuito, che assicuri un buon servizio accessibile a tutti. Non bisogna perdere questo bene prezioso. Bisogna mantenerlo”. E impegnarsi tutti, anche nella chiesa; dice il Papa: accade “a volte che qualche istituzione sanitaria, per una non buona gestione, non va bene economicamente, e il primo pensiero che ci viene è venderla. Ma la vocazione, nella Chiesa, non è avere dei quattrini, è fare il servizio, e il servizio sempre è gratuito”. La pagina di Marco è anche occasione per riflettere sulla scelta dell’essenziale per il discepolo, quell’andare con il minimo indispensabile – “nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura” – avendo con sé l’unica indispensabile lettura, cioè il Vangelo. “Quello che non mi serve, mi pesa”, diceva Madre Teresa di Calcutta alla persona che voleva lasciarle in dono una casa. Il pellegrino nel suo andare non ha inutili fardelli, pesi in grado di rallentare la sua andatura. È un andare senza sicurezze, sprovveduti di tutto; solo il bastone, i sandali e una sola tunica. L’essenzialità che Francesco, il poverello di Assisi, abbraccia spogliandosi dei suoi beni, e che papa Francesco ripropone sin dai suoi primi interventi, all’indomani della sua elezione. (Fabio Zavattaro)  

Nella vigna del Signore

5 Ottobre 2020 - Città del Vaticano - La vera autorità è nel servire, non sfruttare gli altri, dice il Papa. La vigna è del Signore, non nostra. L’autorità è un servizio, e come tale va esercitata. Nel giorno in cui si chiude il Tempo del Creato voluto dal Papa e aperto il primo settembre scorso, Francesco consegna al mondo la sua terza enciclica, Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, firmata sabato presso la tomba del poverello di Assisi. Un testo che mentre propone l’icona del Buon Samaritano, ci offre l’occasione di riflettere su quelle vie percorribili da ognuno di noi per contribuire a costruire un mondo più giusto e fraterno nella vita quotidiana, nella politica, nel sociale. “I segni dei tempi mostrano chiaramente che la fraternità umana e la cura del creato formano l’unica via verso lo sviluppo integrale e la pace, già indicata dai Santi Papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II”. Nella sua enciclica papa Francesco evidenzia subito le “ombre di un mondo chiuso”; un mondo che non sa guardare l’altro come un fratello, che antepone l’egoismo al bene comune, la logica di un mercato fondata sul profitto e sulla cultura dello scarto, la cultura dei muri all’accoglienza, alla condivisione e alla solidarietà. Un messaggio che trova eco nelle letture della domenica: l’immagine della vigna, che in Isaia è sterile; in Matteo, invece, sono i vignaioli a impedire al padrone di coglierne i frutti. Se nel profeta è metafora di una resistenza ad accogliere la novità del Signore, nel Vangelo è il luogo del “sogno” di Dio, il progetto che Dio ha sul suo popolo. In Fratelli tutti, il Papa ci ricorda la comune appartenenza alla famiglia umana, quel riconoscerci fratelli perché figli di un unico creatore, e abitanti dello stesso luogo da custodire, perché in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme: il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Rileggendo in Matteo la parabola – la vigna, il padrone premuroso e i contadini avidi – ci troviamo di fronte a orgoglio, egoismo, infedeltà e rifiuto; ma anche alla volontà del padrone di non escludere nessuno, di insistere fino a mandare il proprio figlio per ottenere la “conversione” dei contadini: nell’ostinazione del padrone della vigna c’è il desiderio profondo di ottenere i frutti della sua proprietà, mentre il rifiuto del figlio – l’erede, ucciso perché così i contadini pensano di appropriarsi della vigna – è il “no” deciso, secco alla mano tesa dal padrone; come dire, il rifiuto definitivo dell’amore del padre che pur di stingere l’alleanza con l’uomo manda il proprio figlio. Nella parabola, Gesù rilegge la propria storia, la sua missione, il suo amore per il popolo dell’alleanza. Lui è il figlio rifiutato, cacciato e poi ucciso: è la pietra che i costruttori hanno scartato e che è diventata indispensabile. L’immagine della vigna è chiara, dice all’Angelus Papa Francesco: “rappresenta il popolo che il Signore si è scelto e ha formato con tanta cura; i servi mandati dal padrone sono i profeti, inviati da Dio, mentre il figlio è figura di Gesù. E come furono rifiutati i profeti, così anche il Cristo è stato respinto e ucciso”. La domanda al termine del racconto – quando verrà il padrone della vigna, cosa farà a questi contadini? – trova, nei capi del popolo, la risposta che è anche la loro condanna: “il padrone punirà severamente quei malvagi e affiderà la vigna ad altri contadini. Un ammonimento che vale in ogni tempo e non solo per coloro che rifiutarono Gesù. Vale anche per il nostro tempo, dice il Papa: “anche oggi Dio aspetta i frutti della sua vigna da coloro che ha inviato a lavorare in essa. Tutti noi. In ogni epoca, coloro che hanno un’autorità, qualsiasi autorità, anche nella Chiesa, nel popolo di Dio, possono essere tentati di fare i propri interessi, invece di quelli di Dio stesso”. La vera autorità è nel servire, non sfruttare gli altri. La vigna è del Signore, non nostra. L’autorità è un servizio, e come tale va esercitata. Così afferma: “è brutto vedere quando nella Chiesa le persone che hanno autorità cercano i propri interessi”. Ecco la grande responsabilità di chi è chiamato a lavorare nella vigna del Signore, specialmente con ruolo di autorità. Gesù non ci lascia estranei alla sua vicenda personale, non possiamo sentirci semplici spettatori. Anche noi possiamo essere coinvolti nello stesso peccato: la durezza di cuore, il rifiuto di accogliere il figlio, l’altro. (Fabio Zavattaro)