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Covid 19: nuovo monitoraggio di Caritas Italiana

1 Luglio 2020 - Roma - Il 2 luglio di 49 anni fa, fortemente voluta da papa Paolo VI, nasceva Caritas Italiana. In questi decenni ha sempre cercato, in fedeltà al mandato ricevuto, di essere - come ha sottolineato papa Francesco in occasione del 45° - “stimolo e anima perché la comunità tutta cresca nella carità e sappia trovare strade sempre nuove per farsi vicina ai più poveri, capace di leggere e affrontare le situazioni che opprimono milioni di fratelli – in Italia, in Europa, nel mondo”. Un servizio impegnativo che grazie al fiorire delle 218 Caritas diocesane ha messo radici sul territorio, dentro le comunità locali. Durante la pandemia, di fronte alle sfide drammatiche e nonostante le forti criticità, Caritas Italiana e tutte le Caritas diocesane hanno continuato a restare accanto agli ultimi, sia pure in forme spesso nuove e adattate alle necessità contingenti. In questo quadro va segnalata la seconda rilevazione nazionale condotta dal 3 al 23 giugno. L’indagine, attraverso un questionario strutturato destinato ai direttori/responsabili Caritas, ha approfondito vari ambiti: come cambiano i bisogni, le fragilità e le richieste intercettate nei Centri d’ascolto e nei servizi Caritas; come mutano gli interventi e le prassi operative delle Caritas alla luce di quanto sta accadendo; qual è l'impatto del Covid19 sulla creazione di nuove categorie di poveri; qual è l'impatto dell'attuale emergenza su volontari e operatori. I dati raccolti si riferiscono a 169 Caritas diocesane, pari al 77,5% del totale. Rispetto alla situazione ordinaria nell’attuale fase il 95,9% delle Caritas partecipanti al monitoraggio segnala un aumento dei problemi legati alla perdita del lavoro e delle fonti di reddito, mentre difficoltà nel pagamento di affitto o mutuo, disagio psicologico-relazionale, difficoltà scolastiche, solitudine, depressione, rinuncia/rinvio di cure e assistenza sanitaria sono problemi evidenziati da oltre la metà delle Caritas. Nel dettaglio rispetto alle condizioni occupazionali si sono rivolti ai centri Caritas per lo più disoccupati in cerca di nuova occupazione, persone con impiego irregolare fermo a causa della pandemia, lavoratori precari/saltuari che non godono di ammortizzatori sociali, lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria/cassa integrazione in deroga, lavoratori autonomi/stagionali in attesa del bonus 600/800 euro, pensionati, inoccupati in cerca di prima occupazione, persone con impiego irregolare, casalinghe. Altre questioni evidenziate sono: problemi burocratici/amministrativi, difficoltà delle persone in situazione di disabilità/handicap, mancanza di alloggio in particolare per i senza dimora, diffusione dell'usura e dell'indebitamento, violenza/maltrattamenti in famiglia, difficoltà a visitare/mantenere un contatto con parenti/congiunti in carcere, diffusione del gioco d'azzardo/scommesse. Fondamentale accanto all’impegno degli operatori è stato l’apporto di migliaia di volontari tra cui molti giovani che nella fase acuta della pandemia hanno garantito la prosecuzione dei servizi sostituendo molti over 65 che in via precauzionale rimanevano a casa. Tra operatori e volontari sono stati 179 quelli positivi al Covid-19, di cui 95 ricoverati e 20 purtroppo deceduti. Piccoli segnali positivi arrivano dal 28,4% delle Caritas che, dopo il forte incremento dello scorso monitoraggio, con la fine del lockdown hanno registrato un calo delle domande di aiuto. Non tutte le Caritas interpellate hanno quantificato con precisione le persone accompagnate e sostenute da marzo a maggio, che comunque, dalle risposte parziali pervenute, risultano quasi 450.000, di cui il 61,6% italiane. Di queste  il  34% sono “nuovi poveri”, cioè persone che per la prima volta si sono rivolte alla Caritas. 92.000 famiglie in difficoltà hanno avuto accesso a fondi diocesani, oltre 3.000 famiglie hanno usufruito di attività di supporto per la didattica a distanza e lo smart working, 537 piccole imprese hanno ricevuto un sostegno. Complessivamente - grazie al fiorire di iniziative di solidarietà e al contributo che la Conferenza Episcopale Italiana ha messo a disposizione dai fondi dell’otto per mille che i cittadini destinano alla Chiesa cattolica - i servizi forniti sono stati molteplici: dispositivi di protezione individuale/fornitura igienizzanti, pasti da asporto/consegne a domicilio, servizi di ascolto e accompagnamento telefonico, acquisto farmaci e prodotti sanitari, ascolti in presenza su appuntamento, supporto/orientamento rispetto alle misure messe in atto dalle amministrazioni/governo, assistenza domiciliare, attività di sostegno per nomadi, giostrai e circensi, servizi di supporto psicologico, rimodulazione dei servizi per senza dimora, accompagnamento alla dimensione del lutto, sportelli medici telefonici, aiuto per lo studio/doposcuola, alloggio per quarantena/isolamento, presenza in ospedale/Rsa, accoglienza infermieri e medici.

P. Emerson: in Perù ogni 20 minuti muore un malato per Covid19

30 Giugno 2020 - Lima - Il macabro scenario di sofferenza, morte e povertà in America Latina si fa ogni giorno più grave. In Perù la salute si è trasformata in un “miserabile negozio”, racconta a www.migrantesonline.it p. Emerson Campos Aguilar, coordinatore nazionale dei cattolici peruviani in Italia, che in questi giorni si trova nel suo Paese bloccato per la pandemia da covid19 in corso. Il sacerdote evidenzia come per curarsi dal virus le cliniche chiedono molti soldi e molta gente muore anche perché non ci sono ospedali attrezzati. “Come credenti – ci dice – dobbiamo rinnovare la speranza che, nonostante tutto, l'amore sia più forte della morte”. P. Emerson ci racconta che ogni 20 minuti un peruviano malato di covid19 muore e che 8 milioni di peruviani non hanno acqua; migliaia sono le famiglie che non hanno un frigorifero in casa. Si registra un aumento della povertà. Il lockdown è stato prolungato nella foresta amazzonica e in altre parti del Perù fino al 31 Luglio. In alcune zone fino alla fine dell’anno e l’emergenza sanitaria fino a settembre. “Coloro che sono malati, coloro che hanno perso la casa e il lavoro sono disperati. Alcuni pensano addirittura al suicidio mentre nel territorio si registra un aumento della delinquenza. Nella giungla peruviana, a San Martin, la porta dell'Amazzonia peruviana, stiamo facendo un enorme sforzo di solidarietà, aiutiamo con pacchi alimentari, ossigeno a casa, mascherine, sapone e altre cose e usiamo più medicine naturali per combattere l’infezione ma le risorse caritative sono già finite. Confidiamo nel buon Dio. Potremo solo dire, se siamo sinceri, che il dio Denaro ha preso il posto di Cristo, unico Signore al centro di tutto”, spiega commosso il sacerdote. P. Emerson ci racconta di essere intervenuto per aiutare il parroco di Morales in Tarpoto, – tre ore di viaggio dalla zone dove vive p. Emerson - P. Wilmer Montenegro, affetto da coronavirus e che oggi sta meglio, “è fuori pericolo”. “Nonostante l'esuberante giungla amazzonica ricca di ossigeno – è l’amarezza del sacerdote - la gente muore per mancanza di ossigeno, per mancanza di medicine, di cure mediche, In molte zone mancano gli ospedali: ci sono solo semplici pronto soccorso. Il polmone della giungla del mondo è dimenticato, lasciato a se stesso. E chi è malato è lasciato solo, nell’anonimato. Rischia di morire anche chi non è affetto da coronavirus ma di altre patologie. Una storia di uomini, donne e bambini anonimi che sfuggono dalle mani dei responsabili”. La povertà e l’emarginazione, “se non facciamo un immenso sforzo di solidarietà, aumenterà: ci sarà una maggiore miseria e ci saranno più persone che sopravviveranno in essa, come dimostrano tutte le statistiche di oggi”. Per p. Emerson la “nostra fede non è una questione puramente individuale, la fede è sempre vissuta in comunità. Entrambe le dimensioni, personale e comunitaria, segnano sia l'esperienza della fede che l'intelligenza di essa. Il nostro è l'unico continente che è il più povero e il più cristiano allo stesso tempo. Oggi come mai prima, urgentemente nella storia del Perù richiama il destino comune, ci chiama a cercare un nuovo inizio. Ciò richiede un cambiamento di mente e di cuore”.

Raffaele Iaria

 

Covid: i sacerdoti potranno distribuire l’Eucaristia senza guanti

29 Giugno 2020 - Roma - Al momento della distribuzione della Comunione ai fedeli, il sacerdote non dovrà più indossare i guanti. E gli sposi durante la celebrazione del loro matrimonio non avranno l’obbligo delle mascherine. Lo precisa una nota del ministero dell’Interno in risposta ai quesiti posti dalla segreteria generale della Cei che in proposito chiedeva deroghe a quanto stabilito in precedenza. Più nello specifico alla luce degli attuali indici epidemiologici il Comitato tecnico scientifico (Cts) raccomanda che chi distribuisce la Comunione “proceda a una scrupolosa detersione delle proprie mani con soluzioni idroalcoliche” e che le ostie siano “depositate nelle mani dei fedeli evitando qualsiasi contatto tra le mani dell’officiante e quelle dei fedeli medesimi. In caso di contatto dovrà essere ripetuta la procedura di detersione delle mani dell’officiante”. Quanto ai matrimoni, il Cts osserva che “non potendo certamente essere considerati estranei tra loro i coniugi possano evitare le mascherine”. “Deroga” che può essere estesa anche alle celebrazioni “del matrimonio secondo il rito civile o secondo le liturgie delle altre confessioni religiose”. Resta invece la raccomandazione che l’officiante usi “il dispositivo di protezione delle vie respiratorie e rispetti il distanziamento fisico di almeno un metro”.  

Il card. Bo: includere migranti e sfollati in Myanmar nella risposta alla crisi del Covid-19

22 Giugno 2020 - Myangon -  Migranti e sfollati in Myanmar e in tutta l'Asia affrontano sempre più situazioni difficili: "Sono spesso in fuga, vivono in luoghi sovraffollati e con un'assistenza sanitaria inadeguata" ha detto il card. Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon e Presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell'Asia. I conflitti rimangono la causa principale della migrazione forzata in Asia, ha rilevato in un messaggio ripreso dall’agenzia Agenzia Fides, aggiungendo che "in Myanmar guerra, tensioni interetniche, scelte politiche causano lo spostamento di migliaia di persone che ora muoiono di fame nel nord dello stato di Rakhine e in altri stati come il Chin". Il porporato ha lanciato un appello, auspicando che "qualsiasi conflitto che causa sofferenza alle persone sia risolto attraverso il dialogo e una costruttiva ricerca della pace". Riferendosi al contesto birmano e all'intero continente, ha aggiunto: "Occorre dare priorità ai principi riconosciuti del diritto internazionale, propri dei paesi civili per quanto riguarda la protezione degli sfollati", ricordando che "i migranti e gli sfollati in Asia non devono affrontare discriminazioni causate dalla crisi legata alla pandemia del Covid-19". "È urgente includere le esigenze di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati interni in tutte le politiche di risposta al Covid-19, dal soccorso agli aiuti economici per la sopravvivenza" ha affermato; “se l'umanità è divisa, la crisi pandemica non può essere superata. Se nessuno è escluso, è possibile curare un pianeta. Per il bene di tutti, prendiamoci cura dei rifugiati. Se le persone continuano a essere costrette ad abbandonare le proprie case, rimarremo un mondo in crisi". "Per porre fine alla crisi sanitaria, alleviare la fame e la povertà indotte dalla pandemia e per prevenire lo sradicamento delle persone come rifugiati e sfollati bisogna affrontare le vere cause dei conflitti, fermare le offensive militari e consentire agli sfollati di tornare alla loro villaggi ", ha detto il Card. Bo che ha lanciato un accorato monito ai leader politici e religiosi asiatici perché "prestino particolare attenzione alla difficile situazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo privi di documenti, e perché li aiutino con tutto il sostegno di cui hanno bisogno".  

Italiani nel Mondo: gli emiliano romagnoli raccontano la pandemia

19 Giugno 2020 - Bologna - La Consulta Regionale degli Emiliano Ronagnoli nel Mondo inaugura una nuova rubrica dedicata alle testimonianze dei corregionali  nel mondo durante l'emergenza Covid-19. I materiali raccolti daranno vita ad una mostra fotografica e documentale sul museo virtuale MIGRER, che racconterà l'emergenza sanitaria globale attraverso i contributi delle varie  comunità all'estero. Nel mondo - spiega la Consulta - la pandemia si è mossa con tempi e modalità diverse e i paesi hanno messo in campo strumenti e misure molto differenti: ecco perché "vogliamo avviare un dialogo con le comunità di emiliano-romagnoli nel mondo finalizzato, a sapere come stanno vivendo questo difficile momento storico e conoscere la situazione attuale nei Paesi in cui risiedono i nostri corregionali". Il tutto verrà fatto attraverso  testimonianze, interviste e fotografie che saranno raccolte nella nuova rubrica “Speciale Covid-19: parola agli emiliano-romagnoli nel mondo”.

Perù: la testimonianza del coordinatore nazionale dei peruviani in Italia

16 Giugno 2020 - Lima - La Festa del Corpo di Cristo è una forte chiamata a essere come “Lui per salvare questo mondo”.  Il Perù ha celebrato la festa del Corpus Domini nel pieno della pandemia soprattutto nelle zone più povere dove  mancano medicinali e anche l' ossigeno: chiunque affetto da coronavirus deve  acquistarlo in proprio a costi molto elevati. Lo racconta a www.migrantesonline.it il coordinatore nazionale dei peruviani in Italia, p. Emerson Campos Aguilar, che si trova proprio in Perù dove è rimasto a causa della pandemia e quindi del blocco dei viaggi internazionali. “Non ci sono medicine, mancano i viveri”: “quel corpo di Cristo che muore nel silenzio” di tante persone alcuni anche sulle strade dove nessuno li vede. “Alcuni dicono che preferiscono morire  a casa perchè  sanno che qualcuno li assiste aiutandoli anche a lenire il proprio dolore”, dice il sacerdote. Il sacramento del pane oggi si traduce “in questa pandemia nella  teologia della pentola”: “la gente muore di fame e attorno alla pentola comune la gente racconta i propri dolori, le proprie speranze,  le proprie morti e tutto quello che ogni persona porta nella sua storia silenziosa della presenza di Dio”, dice il sacerdote. Santa Teresa d’ Avila diceva “anche tra le pentole c'è il Signore”. “Gesù è veramente presente nel Santissimo Sacramento, rimane con noi fino alla fine del mondo, è un amico intimo, che ci conosce, che conosce le nostre gioie e dolori in mezzo alla pandemia”, aggiunge don Emerson: è “presente nella solidarietà di ogni cattolico con la sua preghiera e la sua donazione”. Dopo il Brasile il Perù è il secondo paese con il maggior numero di morti per la pandemia in America del Sud e la pandemia “si aggiunge all'estrema povertà soprattutto di alcune zone, alla mancanza di lavoro  e di beni necessari”. Nella zona dove vivono i suoi genitori, al confine con Brasile, Ecuador e Colombia, p. Emerson racconta che la parrocchia di Santo Toribio de Mogrovejo dà da  mangiare a 1500 persone ogni giorno, “persone senza lavoro,  anziani  soli, persone che arrivano dopo aver camminato due o tre ore a piedi sotto il sole o la pioggia  per ricevere del cibo che serve loro per l'intera giornata. A loro diamo anche delle mascherine”.  Qui non c'è un ospedale ma un piccolo pronto soccorso, non ci sono medicine e per i malati l'ossigeno necessario. Il primo ospedale Covid è a tre ore di macchina. “Abbiamo aiutato alcuni donando noi le bombole d'ossigeno” grazie anche ad un aiuto ricevuto dalla  Fondazione Migrantes.  “Oggi dobbiamo riporre la testa vicino al  cuore di Cristo per ascoltare e scegliere ciò che vuole Gesù, per chiedere che i nostri occhi siano aperti e i nostri cuori siano brucianti come quelli dei discepoli di Emmaus, affinché ogni giorno l'amore per il Sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo che è il corpo e la vita di ogni essere umano cresca in noi per riumanizzare  la vita, la salute, la medicina, la politica ed entrare in quell'umanesimo  che indica il Vangelo”.

Raffaele Iaria

Kenya: “si proteggano i più vulnerabili” chiede il Presidente della Commissione episcopale per rifugiati e migranti

16 Giugno 2020 - Nairobi - "Le persone che vivono in strada e quelle che soffrono di malattie mentali si trovano in una situazione ancora più precaria, con un alto rischio di contrarre e diffondere il Covid-19 ed esserne sopraffatti" ha affermato mons. Virgilio Pante, vescovo di Maralal e Presidente della Commissione per i rifugiati, i migranti e i marittimi della Conferenza Episcopale del Kenya nell’omelia tenuta domenica 14 giugno, Solennità del Corpus Domini. Mons. Pante, rifersice l'agenzia Fides,  ha espresso la preoccupazione dei vescovi keniani per l’impatto che il Covid-19 e le misure per prevenirne la diffusione stanno avendo sulle persone più vulnerabili della società: rifugiati, sfollati interni, lavoratori costretti a spostarsi da un punto all’altro del Paese come camionisti e pastori, senza tetto e persone affette da malattie mentali. Il Presidente della Commissione per i rifugiati, i migranti e i marittimi, ha lodato gli sforzi dei benefattori che sostengono le famiglie di strada che sono quelle maggiormente colpite dal Covid-19, e ha sottolineato che occorre accrescere gli sforzi per affrontare la difficile situazione degli sfollati interni e dei rifugiati che vivono in luoghi congestionati, senza strutture adeguate per far fronte all'ondata di infezioni. “I rifugiati e gli sfollati interni che risiedono in campi densamente popolati - ha detto - corrono il rischio di contrarre il coronavirus" Da qui l'appello affinché vengano adottate "urgentemente misure adeguate per proteggere questi gruppi vulnerabili".

La vita in un campo Rom durante il Covid 19

16 Giugno 2020 - Pistoia - Per fortuna sono rimasto al campo, sì perché all’inizio di questa pandemia, avevo pensato di trovarmi un posto “più sicuro”, sollecitato anche dall’invito di qualcuno a “mettere casa” temporaneamente in qualche parrocchia o canonica vuota, un posto senz’altro più tranquillo e adeguato. Tentazione passeggera e a dire il vero: mai presa in considerazione. D’altronde dove andare? Qui al campo non mi manca niente: compagnia, un tetto, un letto e il necessario per vivere anche per affrontare questa “quarantena-clausura”. E poi nessun Rom del campo poteva porsi questo interrogativo, allora perché io sì? La loro, la mia casa e la nostra è il campo. Andarmene avrebbe significato anche ingannare i Rom. Se all’inizio pensavo che stare al campo forse poteva portare qualche vantaggio, ora a distanza di qualche mese, sono abbastanza convinto che il campo in un certo senso ci abbia tutelato molto di più, rispetto alle altre realtà. Fino ad ora nessun contagio all’interno del campo, rispetto a Pisa che ne ha avuti circa 1000, ci sarà un motivo? Io posso immaginarlo, ma difficile provarlo senza prove concrete e verificabili. Ma la prima constatazione, quella più evidente è che la vita al campo, anche durante il Covid 19, è continuata sostanzialmente quasi come prima, anche se diverse cose, ovviamente sono cambiate. Ad esempio, gli appelli al distanziamento sociale, all’uso delle mascherine (qui al campo arrivate fuori tempo massimo) non hanno avuto grande ascolto. Anche il Covid 19 non ha interrotto la tipica vita sociale dei Rom e tra i Rom all’interno del campo, fatta di incontri, attività quotidiane, visite, liti, compleanni, tanta musica, il mese del Ramadan e compresa la festa del Giordan, (giorno di San Giorgio), tipica festa dei Rom Balcanici del 6 Maggio, anche se quest’anno in tono minore. I rom conoscono da tempo la fragilità, sanno di essere vulnerabili. Non hanno certo bisogno di esperti, di psicologi, di guru o di professori che insegnino le tattiche per affrontare i rischi della vulnerabilità. I Rom ci sono nati dentro la fragilità, ne hanno consapevolezza. E il campo, gran parte dei campi Rom sono allo stesso tempo causa e risposta alla vulnerabilità che sentono sulla loro pelle, da sempre. I Rom che abitano nei campi, soprattutto loro, hanno sviluppato quello che gli studiosi di sociologia chiamano resilienza: “La resilienza è la capacità di una persona o di un gruppo a svilupparsi bene, a continuare a progettarsi e proiettarsi nell’avvenire, in presenza di eventi destabilizzanti, di condizioni di vita difficili, di traumi a volte molto duri”. ( M. Marciaux) Il Covid-19 viene da fuori, è invisibile come il respiro, è una minaccia che colpisce indistintamente, non fa differenza di classi, di appartenenze, di fedi…i Rom sanno fiutare il pericolo, a modo loro e gradualmente percepiscono la gravità della situazione, ma lo affrontano senza esserne schiacciati.  In questo caso intuiscono che il “restare al campo” può essere la loro unica àncora di salvataggio. Gli stessi Rom (quelli integrati !?) che vivono in appartamenti in città, a contatto dei gagè sono visti con un po' di sospetto e timore, quando passano dal campo. Potrebbe apparire la loro una “incoscienza”, quando tutti si isolano nelle proprie abitazioni, si mantengono le necessarie distanze, l’invito ad usare le mascherine (che qui arrivano fuori tempo massimo), ad evitare gli assembramenti, invece qui al campo queste precauzioni non sono del tutto rispettate, perché sembrano più utili per chi sta “fuori”. Durante questo periodo di quarantena il campo cambia di poco il suo stile, o meglio fa quello che è la casa per gli italiani durante la quarantena: protegge, sa prendersi cura, rafforza lo spirito di comunità, di appartenenza, perché il campo, nonostante tutto è la nostra casa, forse più dell’appartamento, della baracca o della roulotte. Il virus non penetra, rimane fuori almeno fino ad ora, la vita del campo sembra fare da barriera al virus, è vero “ci si salva insieme, se restiamo in piedi”. Sostanzialmente la vita interna del campo continua con i suoi ritmi, senz’altro più lenta rispetto a prima, ma da sempre i tempi del campo sono lunghi, prolungati, non dettati da scadenze, da programmi stretti, appuntamenti…certamente non frenetici. È da sempre che i Rom si distinguono dai “gagie”, anche nell’uso del tempo: loro non vivono in funzione della prossima estate, del prossimo convegno, del prossimo viaggio all’estero, della seconda casa, della movida o dell’aperitivo al bar. Se questa quarantena, rinchiusi nelle case ha provocato in tanti italiani degli stress, disagi, irrequietezza, tra i Rom molto meno, perché la vita del campo in genere scorre lenta, senza fretta, è isolata (clausura). Decisamente i ritmi del campo non sono quelli del “tutto e subito”, non ci si muove alla velocità di un click e questo li aiuta a non cadere nella depressione, perché la vita di relazione, che il campo garantisce, li aiuta a superare lo stress causato anche dalla paura di essere vulnerabili al contagio. Le nostre società stanno facendo l’esperienza dolorosa e tragica della vulnerabilità e del limite. In un certo senso ci sentiamo traditi o per lo meno delusi dalla scienza, dalla tecnologia, dalla medicina. Davamo per scontato che queste moderne “torri di sicurezza”, simboli di conquista e benessere, fossero impenetrabili, capaci di garantire la nostra tranquillità, la nostra salute e il nostro futuro…più o meno avevamo la convinzione di avere un certo controllo. Invece è bastato un invisibile virus per scombussolarci e mettere in ginocchio le nostre economie, i nostri stili di vita, sentirci vulnerabili, limitati. Il coronavirus ci ha insegnato che abbiamo un limite, che siamo un limite. Ebbene, i Rom che da sempre vivono la loro “vita nuda” in modo vulnerabile, consapevoli di essere limitati e di dover conviverci, perché sottomessi quasi sempre alle decisioni prese da altri, all’aria che tira nel paese, agli interessi politici, alle ordinanze di sgombero, agli equilibri interni di un dato campo: vite sospese, in mano d’altri. Ebbene il coronavirus non ha scalfito più di tanto le loro “certezze limitate”, non certo quelle basate sulla scienza, sul progresso scientifico, perché le loro si fondano soprattutto sul loro “stare e vivere insieme”, sull’affrontare insieme anche le prove più dure. La quarantena per il campo è significato anche un periodo nel quale siamo rimasti ancora più soli. Pochi, veramente pochi tra i gagie si sono preoccupati di come stavamo al campo, se avevamo bisogno di qualcosa, se avevamo le mascherine o i gel per disinfettarci le mani. Per soli, intendo anche senza operatori, assistenti sociali, controllori di varia natura, eccetto la presenza quotidiana delle forze dell’ordine che venivano per accertare chi era agli arresti domiciliari. La quarantena è stata in questo caso, per il campo una “ventata di ossigeno”. Da anni assistiamo a un ossessivo controllo, avere il fiato sempre sul collo appesantisce la vita, ti fa sentire come un osservato speciale, perché la tua esistenza sai che dipende anche da chi è incaricato a controllarti: richiami, proibizioni, controlli, minacce, inviti a presentarsi, ad allontanarsi…un’aria abbastanza pesante, a volte un po' “pestilenziale” che finisce con il contaminare l’esistenza di tanti, di tutti. È forse anche per questo, che i Rom hanno elaborato un proprio sistema immunitario? Con il coronavirus, finalmente una “tregua”, il respiro del campo torna ad essere più tranquillo e disteso. I rom finalmente si riappropriano del loro respiro. Certo, anche su di loro incombono timori, paure, preoccupazioni, il pericolo del contagio che può venire soprattutto da fuori, meno da dentro. “Dentro-fuori”, che strano, il campo spesso è visto dalla cittadinanza come un “fuori luogo”, un pericolo, una minaccia contagiosa, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, una bomba ecologica. Invece ora, le parti sembrano capovolgersi, senz’altro agli occhi dei Rom, il pericolo ora viene dal “loro fuori”, proprio da chi li ha sempre esclusi, tenuti fuori, appunto a debita distanza di sicurezza. Le parti si sono invertite, appunto, grazie ad un virus invisibile. Tutto può cambiare, niente è immutabile. “Per piacere state a casa VOSTRA” scritta apparsa all’entrata di un campo di Sinti a Bologna, chiaramente rivolta a chi sta fuori dal campo: voi che venite da fuori, non contagiateci per piacere: come a voler dire: untori siete voi, state a casa vostra! Con il coronavirus il clima dentro il campo sembra un po’ cambiato.  Il pane ritorna ad essere sfornato in casa e il suo profumo circola, viene offerto anche ad altri. La difficoltà di reperire cibo per diverse famiglie è sostenuta anche attraverso i bonus alimentari (distribuiti dal comune a che ne ha diritto), condivisi anche all’infuori del proprio nucleo famigliare, come i pacchi alimentari Caritas, sono facilmente spartiti. L’impossibilità di lavorare e di andare a manghel, come prima, se da un lato preoccupa, dall’altro è sostituita dalla comprensione e dall’andare incontro a chi è effettivamente in difficoltà. Il motore del campo sono soprattutto le relazioni, d’altronde nella vita di tutti non è forse tutta questione di relazioni? Senz’altro anche il mese sacro del Ramadan, ha contribuito parecchio a vivere questo tempo con un’attenzione a chi è in difficoltà e a sostenere chi effettivamente faceva il digiuno e la preghiera. Quindi, anche le relazioni in questo periodo sembrano più vive e feconde del solito e aiutano ad affrontare le paure e le sue crisi, perché condivise. Se da un lato è pur vero che la nostra società ci ha educato ad essere autonomi, autosufficienti, a non dover dipendere da altri, poco invece ci ha formato a saperci accontentare o di saper fare a meno del superfluo, tanto meno ad essere mano tesa che elemosina un aiuto o accettare di farci aiutare. Tutto questo ci mette in un forte disagio, fino a sfiorare la crisi psicologica.  I Rom invece ci sono più abituati e anche di fronte alla crisi del coronavirus, la esorcizzano con la musica e la danza, così come abbiamo visto fare su tanti balconi delle nostre case, perché anche “la musica cambia e salva la vita” (Ezio Bosso) Ovviamente non tutto è bello dentro un campo Rom, come dentro le nostre comunità. Durante questo tempo siamo stati comunque testimoni anche di tante cose belle: dedizione, sacrificio, coraggio. Tutte cose che ci fanno sperare e ce lo auguriamo tutti di riuscire a farne tesoro, anche per il “dopo coronavirus”. Come m’auguro che la “bellezza” del vivere Rom possa  contagiare anche la mia e la nostra società, una bellezza da guardare in volto, senza alcuna “mascherina di protezione”. “Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto.” (Sal. 26, 8)   don Agostino Rota Martir Campo Rom di Coltano (PI)

Efal: formazione operatori sanitari in emergenza Covid-19

10 Giugno 2020 -  Roma - L’EFAL in qualità di Ente di Formazione Professionale è impegnato da sempre nella formazione rivolta agli operatori sociali e multidisciplinari che si occupano di accoglienza. Negli ultimi anni grazie anche alla convenzione con l’Università di Siena, EFAL si occupa di somministrazione degli esami per la certificazione della lingua italiana. Questo ha permesso al “nostro Ente – dice la direttrice Maria Pangaro - di avere una maggiore conoscenza dei fabbisogni formativi e in queste settimane di grande difficoltà per tutti per via della pandemia che ha colpito anche il nostro Paese, l’EFAL ha strutturato una serie di corsi visionabili anche sul sito www.efal.it tra cui un percorso in webinar  della durata di 4 ore per formare e informare operatori impegnati nella prima accoglienza Fami e nella seconda accoglienza Siproimi”. La formazione missione di EFAL è “necessaria in questa fase storica per l’Italia e solo attraverso momenti dedicati è possibile salvaguardare la salute di tanti operatori ma al tempo stesso degli ospiti stranieri”, conclude Pangaro.  

Accolti e sfrattati. L’odissea rom

8 Giugno 2020 - Roma - Una mamma rom e i suoi sei figli, tutti minorenni, da tre giorni vivono in un vecchio furgone parcheggiato in via dei Prati Fiscali; una giovane coppia, con tre bambini piccoli e un quarto in arrivo, pure di etnia rom e anche loro arrivati dalla Bosnia, si sono invece accampati in una vecchia roulotte nei pressi di via Candoni, sempre a Roma. È questo il destino di due delle tre famiglie rom che mercoledì scorso hanno dovuto lasciare la struttura della Croce Rossa di via Ramazzini. Alla fine, dopo un tira e molla durato settimane e proprio nelle stesse ore in cui comunque era previsto lo sgombero con la forza, le due famiglie hanno deciso di caricare le poche e povere suppellettili e andare altrove, mentre la terza famiglia rom, proveniente dalla Romania (anche questa con tre bambini piccoli e la madre invalida costretta su una sedia a rotelle) per ora ha deciso di barricarsi nella stessa struttura, anche perché di alternative non ce ne sono. Si sta consumando così un’altra storia di degrado nella capitale d’Italia, nata all’inizio dell’ultimo periodo invernale, quando – proprio in seguito all’emergenza freddo – il Comune di Roma mette a disposizione della Croce Rossa Italiana una struttura in via Bernardino Ramazzini, non lontano dall’ospedale Forlanini. A marzo, proprio a ridosso del lockdown, in questo centro arrivano altre 18 persone, con 11 bambini, che – tempo altri due giorni – avrebbero dovuto trascorrere in strada il periodo dell’emergenza Covid perché nel frattempo aveva chiuso i battenti anche un altro centro di accoglienza temporanea, nel quartiere di Centocelle. Adesso, però, è terminato anche il progetto originario di via Ramazzini (quello per l’appunto legato all’emergenza freddo) e di fatto anche il riparo per quelle famiglie rom arrivate con l’esplodere della pandemia. Tra Croce Rossa e Comune (assessorato Politiche sociali e Ufficio speciale rom) in queste settimane sono intercorsi contatti molto intensi, grazie anche all’intervento dell’Unione Inquilini e dell’associazione 'Cittadini e minoranze', ma di soluzioni (in ballo c’era anche quella di una casa famiglia) finora non ne sono state trovate. Così come a poco o nulla è servito coinvolgere il V Municipio. «Noi siamo pronti a collaborare per qualsiasi soluzione », afferma Nino Lisi, tesoriere dell’associazione, mentre in via Ramazzini nei giorni scorsi si è recato anche Marco Braccioduro, presidente di 'Cittadini e minoranze', che ha toccato con mano il dramma della situazione non appena le due famiglie, prima dell’intervento delle forze dell’ordine, hanno deciso di andare via: «Qui parliamo di sei bambini chiusi in un furgone lungo la strada, mentre l’altra famiglia si è sistemata in un campo rom, ma chissà se ce la lasceranno, visto che non hanno l’autorizzazione; al competente ufficio del Comune di Roma hanno chiesto di avere almeno un bagno chimico». Tra l’altro, entrambi i nuclei familiari negli ultimi tempi sono passati da una sistemazione precaria all’altra, compresa quello dell’ex camping River, il campo rom tristemente passato agli onori delle cronache per lo sgombero di due estati fa. Cronache di ordinaria odissea nella Capitale d’Italia. (Igor Traboni - Avvenire)     IGOR TRABONI