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Vescovi Usa: “la Chiesa non fa distinzione di confini”

15 Novembre 2019 - Baltimora - L’emergenza migrazione al confine con il Messico e la sospensione legale dei 700mila dreamers irrompono nell’assemblea autunnale dei vescovi americani. In questi giorni la Corte Suprema ha cominciato a discutere tre casi che mettono in dubbio la legittimità delle decisioni di alcuni tribunali intervenuti sull’ordine esecutivo del presidente Trump che abrogava di fatto il Daca, una norma decisa da Barack Obama che autorizzava il differimento della deportazione per tutti quegli immigrati giunti bambini negli Usa al seguito di genitori senza documenti. Il Daca ha consentito agli immigrati di studiare, lavorare, pagare le tasse e servire il Paese nei modi più vari. Molti di questi giovani, genitori a loro volta, sono leader nelle parrocchie e nelle comunità cattoliche ed evangeliche ed è anche questo che ha spinto il presidente della Commissione sulle migrazioni della Conferenza episcopale, mons. Joe S. Vásquez, e altre organizzazioni cattoliche ed evangeliche a presentare un documento di 38 pagine alla Corte suprema perché tenga conto che la totale revoca del Daca di fatto separerebbe intere famiglie ma soprattutto esporrebbe alla violenza e alla strada migliaia di giovani che conoscono come unica patria gli Stati Uniti. Una delle ultime statistiche sui nuovi nati certifica che 256mila bambini hanno almeno un genitore che rientra nel programma del Daca. La Chiesa da tempo sollecita i legislatori a trovare una soluzione che implichi la cittadinanza e fornisce accompagnamento legale e sostegno psicologico a tutti quelli che da oltre un anno vivono nella sospensione della deportazione e su questo fronte non intende fermarsi.Il neoeletto presidente della Conferenza episcopale, mons. Josè Gomez ha voluto sottoporre al dibattito con i suoi confratelli altri tre punti sull’emergenza migratoria che le comunità si trovano a vivere sia ai confini che in gran parte del Paese. Primo fra tutti l’accoglienza dei rifugiati: ciò che per decenni è stato il fiore all’occhiello degli Usa, e cioè l’apertura delle porte a chi fuggiva da guerre e persecuzioni, negli ultimi tre anni ha avuto un drastico calo, passando dai 110mila del 2017 agli appena 18mila programmati per il 2020. Questa decisione governativa ha avuto un impatto anche sui centri e sui programmi d’accoglienza della Chiesa che ne ha chiusi definitivamente 51 e quest’anno altri 41 uffici saranno chiusi in 23 Stati. 18 dei programmi sponsorizzati dalla Conferenza episcopale sono stati sospesi e chiusi i 6 uffici che se ne occupavano. I due provvedimenti del presidente, uno noto come “Remain in Mexico – Rimani in Messico” e l’altro sulla regolamentazione delle richieste d’asilo che prevede di richiedere in un Paese terzo la documentazione per l’asilo negli Usa – hanno drasticamente ridotto gli arrivi ma hanno creato una vera emergenza umanitaria in Messico dove al momento oltre 60mila migranti stazionano al confine. “Alcuni di loro non possono tornare indietro e altri non possono proseguire il viaggio, per cui vivono bloccati in territori dove non ci sono case a sufficienza e l’assistenza legale è limitata – precisa il vescovo Vasquez -. Siamo molto preoccupati per le famiglie con membri affetti da disabilità, per le donne incinte e per i minori, soggetti tutti estremamente vulnerabili. Sappiamo che sono vittime della tratta e di bande che scorazzano violentemente in quella zona del Paese. Questa è emergenza anche per noi, la Chiesa non fa distinzione di confini: sono tutti nostri fratelli e sorelle”. L’ultimo riguarda i migranti che vivono sotto uno stato di protezione temporanea, noto come Tps, che provengono da zone di conflitto o soggette a disastri ambientali o da Paesi dove rientrare metterebbe a rischio la vita di queste persone. L’amministrazione aveva inizialmente cancellato questo protocollo ma dopo insistenze e proteste si è decisa ad estendere il permesso fino al 2021, soprattutto per i cittadini di Nepal, Honduras, Haiti, Sudan ed El Salvador. Il neopresidente ha voluto poi concludere la sua presentazione illustrando le buone pratiche messe in atto dalle diverse chiese. Le diocesi di Browsville e Baltimora, ad esempio, hanno deciso di offrire una carta di identità parrocchiale ai migranti senza documenti per consentirgli di accedere a dei servizi base. Le arcidiocesi di Los Angeles e di Washington hanno istituito un sistema legale che consenta di richiedere la cittadinanza ai bambini nati negli Usa e figli di genitori senza documenti. A Indianapolis e San Francisco i migranti vengono accompagnati nel percorso legale con l’agenzia dell’immigrazione e diverse agenzie offrono supporto per l’iscrizione scolastica e il sostegno psicologico soprattutto dei bambini separati dai genitori. La diocesi di Jackson ha risposto all’emergenza scatenata dai raid dello scorso agosto, che hanno portato alla deportazione di diversi migranti che hanno dovuto abbandonare i loro figli perché nati negli Usa e quindi cittadini statunitensi. E sempre dei bambini reclusi nei centri di accoglienza si occupano i volontari della diocesi di Miami, che hanno ricevuto un training special per assisterli e per garantire anche a tutti gli altri migranti dei centri di detenzione di poter professare almeno la loro fede. Il card. Daniel DiNardo a conclusione degli interventi ha condiviso la sua esperienza personale con il mondo politico soprattutto sul tema della migrazione. “Avere a che fare con i politici sia a livello locale che federale è stata un’esperienza frustrante soprattutto perché alle 12 parlavi con loro e dicevano qualcosa che alle 16.15 smentivano con il loro agire e le loro scelte, eppure dovevo continuare a mantenere con loro una relazione pensando al ruolo della Chiesa e ai migranti”. Il suo augurio per il futuro è che qualcosa cambi sul serio. (Maddalena Maltese – Sir)