12 Novembre 2020 –
La parabola dei talenti è tra le più note del Vangelo. Due servi investono quanto ricevuto da un padrone in partenza per un viaggio. Un altro, invece, va a sotterrare il suo talento. Il padrone è Gesù stesso. I talenti sono le diverse attitudini e capacità affidate ad ognuno da impiegare a servizio del vangelo. Il ritorno del padrone, il giorno del giudizio.
Per chi ha investito c’è un’ampia ricompensa: “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto”; per chi non ha investito, una sorte inquietante: “toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”. Un giudizio severo e apparentemente immeritato. In fondo il talento ricevuto era stato nascosto e restituito al suo legittimo proprietario.
Il protagonista della parabola è proprio lui: quel servo pigro e pauroso, che aveva un’idea meschina e falsa di Dio. Lo immaginava come un padrone avaro, prepotente e dispotico. A suo parere rischiare un investimento avrebbe prodotto solo dei danni: la perdita del talento e la rovina della sua vita.
La tentazione di quel servo non è lontana da alcuni nostri atteggiamenti, a volte nascosti da un velo di falsa umiltà: ‘dispongo di un solo talento; non posso far altro che occuparmi dei fatti miei; cerco solo di non dar fastidio agli altri!’.
Questo è il punto: con questo atteggiamento si ritiene che l’efficacia del vangelo dipenda solo dalle nostre capacità e queste ci sembrano sproporzionate rispetto al compito da realizzare. Dio non ci apparirà mai buono ma duro e crudele. Non è vero che non sbaglia solo chi non fa niente. Al contrario, lo sbaglio più grande è proprio quello di non fare niente con l’illusione e la presunzione di non sbagliare. Una tentazione di questo genere si vince soltanto fidandosi di Dio e rischiando la propria vita in nome del vangelo.
La stessa tentazione è un atteggiamento che riguarda anche tutto corpo ecclesiale. Si pensi nella storia alla difficoltà di rischiare l’inculturazione del vangelo in altre lingue e culture o al confronto inquieto con la scienza per la paura di sconvolgere l’interpretazione della Scrittura. O, in tempi più recenti, alla fatica di accettare la democrazia e il pluralismo politico dei cattolici, di ripensare parzialmente la dottrina nell’ambito della morale cristiana o alla fatica e alla difficoltà di provare nuove strade e nuove vie per l’annuncio del vangelo in un mondo secolarizzato, preferendo continuare a fare quello che si è sempre fatto, anche se ormai scarsamente efficace.
In tutti questi casi, il ‘non rischiare’ ha sotterrato e continua a sotterrare la capacità della Chiesa di essere luce per tutti i popoli e tutti gli uomini.
Non c’è una cifra ideale da raggiungere: c’è da camminare con fedeltà a se stessi, a ciò che abbiamo ricevuto, a ciò che sappiamo fare, là dove Dio ci ha posti, fedeli alla nostra verità, senza maschere e paure. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. (P. Gaetano Saracino)