Verso la GMMR: Il commento del Direttore Migrantes

21 Settembre 2020 – Roma – Il messaggio di Papa Francesco per la GMMR 2020 è dedicato agli sfollati interni, una categoria di persone che, a dispetto del loro numero (si stimano essere oggi circa 50 milioni), sono spesso invisibili. Persone che pur condividendo con i richiedenti asilo e i rifugiati il dramma di essere stati costretti a fuggire, i pericoli e la precarietà, non godono neanche di uno status giuridico riconosciuto: la loro protezione è affidata a quello stesso stato di appartenenza che a volte è la causa stessa dei loro mali. E questa invisibilità è resa oggi ancora più grave dalla crisi mondiale causata dalla pandemia COVID-19, che ha finito col far dimenticare tanti altri drammi che pure continuano a consumarsi su questa nostra terra.

Potremmo obiettare che però la realtà degli sfollati interni riguarda solo alcuni paesi devastati dalla guerra o da crisi umanitarie, come la Siria, il Congo o il Venezuela, e in ogni caso non l’Italia (anche se nel nostro paese sono presenti gli sfollati a causa dei terremoti dell’Irpinia e dell’Aquila). Ma non possiamo fingere di non sapere che il dramma di queste persone spesso ha le sue origini in Europa (basti solo pensare alla produzione e al commercio delle armi, o all’inquinamento), e che ormai il nostro prossimo è ogni essere umano. Inoltre il Papa estende il messaggio “dedicato agli sfollati interni, a tutti coloro che si sono trovati a vivere e tuttora vivono esperienze di precarietà, di abbandono, di emarginazione e di rifiuto a causa del COVID-19”.

Il messaggio parte dalla icona biblica della Fuga in Egitto che ispirò Papa Pio XII nello scrivere quella che è considerata ancora oggi la magna charta del magistero moderno sulle migrazioni, la Costituzione Apostolica Exsul Familia. Scrive Papa Francesco: “Nella fuga in Egitto il piccolo Gesù sperimenta, assieme ai suoi genitori, la tragica condizione di sfollato e profugo «segnata da paura, incertezza, disagi (cfr Mt 2,13-15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà. Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa per sé e per le proprie famiglie» (Angelus, 29 dicembre 2013). In ciascuno di loro è presente Gesù, costretto, come ai tempi di Erode, a fuggire per salvarsi. Nei loro volti siamo chiamati a riconoscere il volto del Cristo affamato, assetato, nudo, malato, forestiero e carcerato che ci interpella (cfr Mt 25,31-46). Se lo riconosciamo, saremo noi a ringraziarlo per averlo potuto incontrare, amare e servire”.

Ricordo che il giorno di Natale 2017 scoppiò l’ennesima polemica contro Papa Francesco perché nell’omelia della notte aveva osato parlare – anche in quel giorno! – dei migranti: “Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi. Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene, ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra”.

Ma la colpa, se di colpa si deve parlare, non è di Papa Francesco, ma del Vangelo! Una delle cose più sorprendenti, più inquietanti del Vangelo è proprio questa identità radicale fra Gesù e il povero. Quel Gesù che ha detto durante l’ultima cena: “Questo è il mio corpo” – e noi devotamente ci inginocchiamo davanti al mistero dell’Eucaristia – è lo stesso che ha detto: “Ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato forestiero, nudo, ammalato, in carcere … quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt.25,31-46). Non ha detto: è come se l’avete fatto a me, ma proprio: l’avete fatto a me!

Per questo i cristiani sanno che è Lui che incontriamo in ogni forestiero che bussa alla nostra porta, anche quando “i nostri occhi fanno fatica a riconoscerlo: coi vestiti rotti, con i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piagato, incapace di parlare la nostra lingua”.

Ai quattro verbi – accogliere, proteggere, promuovere e integrare – che Papa Francesco indicava nel suo messaggio per la GMMR 2018 come risposta alla sfida pastorale provocata dalle migrazioni, egli aggiunge ora altre sei coppie di verbi, legati fra loro da una relazione di causa-effetto. E’ interessante notare che si tratta ancora di verbi, di azioni concrete. Davanti al dramma che ci è di fronte non possiamo limitarci a qualche brillante analisi o pia considerazione, siamo chiamati ad agire. Gesù non ha promesso il Suo Regno a chi ripete Signore, Signore, ma a chi fa la volontà del Padre Suo che è nei cieli (Mt.7,21).

Di queste coppie di verbi mi limito a richiamarne un paio, lasciando le altre alla vostra riflessione.

Anzitutto Papa Francesco ci ricorda la necessità di conoscere per comprendere. Non si può comprendere né amare ciò che non si conosce. E si conosce bene solo da vicino: “Molti non vi conoscono e hanno paura. Questa li fa sentire in diritto di giudicare e di poterlo fare con durezza e freddezza, credendo anche di vedere bene. Ma non è così. Si vede bene solo con la vicinanza che dà la misericordia … Da lontano possiamo dire e pensare qualsiasi cosa, come facilmente accade quando si scrivono frasi terribili e insulti via internet” (papa Francesco alle comunità migranti, Bologna, ottobre 2017)

Oggi la vera linea di demarcazione rispetto ai migranti è fra quelli che li guardano da lontano – e per loro sono solo dei numeri, una categoria: parlano di extracomunitari, di neri, di immigrati – e coloro che si sono avvicinati fino a riconoscere nel loro volto il volto di un fratello, e allora parlano di Leila, di Ibrahim, di Youssuf. Per questo è importante moltiplicare le occasioni di incontro, di ascolto, di buon vicinato.

Un’altra coppia di verbi a cui ci richiama il Papa è coinvolgere per promuovere i migranti. Troppo spesso essi sono, nella migliore delle ipotesi, l’oggetto (non il soggetto!) della nostra carità, il piedistallo che mette meglio in evidenza la nostra bontà. Un certo pietismo, il voler sempre e in tutto provvedere all’altro e scusarlo, senza mai chiedere il suo aiuto o pensare di poter anche imparare da lui, gli toglie la parità, lo spinge a una bassa considerazione di se stesso e a pensare che tutto gli è dovuto perché non si è capaci.

“A volte lo slancio di servire gli altri ci impedisce di vedere le loro ricchezze. Se vogliamo davvero promuovere le persone alle quali offriamo assistenza, dobbiamo coinvolgerle e renderle protagoniste del proprio riscatto”.

Il messaggio si conclude con una preghiera suggerita dall’esempio di San Giuseppe. Di Giuseppe si dice nel brano da cui abbiamo preso le mosse che “destatosi, prese con sé il bambino e sua madre, nella notte,e fuggì in Egitto”. Il mio augurio è che in questa Giornata che celebreremo il prossimo 27 settembre  molti di noi, destandoci, lo imitiamo, non limitandoci a dei bei discorsi, ma facendo almeno qualcuna delle azioni che Papa Francesco ci ha suggerito in questo messaggio.

 

Don Gianni De Robertis

Direttore generale Fondazione Migrantes

Temi: