Verso Tokyo 2021: quei rifugiati che sognano le Olimpiadi

28 Maggio 2020 –

Milano – Cinquanta atleti, uomini e donne. Sono tutti rifugiati e in comune hanno un sogno: quello di far parte dell’Olympic Refugee Team, che parteciperà ai Giochi estivi di Tokyo nel 2021, quando si spera che il Coronavirus sia solo un ricordo o quasi. La squadra, la cui composizione ovviamente non è ancora definitiva a causa di tutto ciò che è accaduto recentemente, segue le orme della delegazione che nel 2016 ha preso parte alle Olimpiadi di Rio ed è sostenuta dal CIO attraverso il Programma di Solidarietà Olimpico. Una miriade di atleti, in cui si distinguono tre provenienze. La prima è quella costituita dai dieci membri della squadra di Rio 2016. A loro, tra cui Yusra Mardini, nuotatrice di origine siriana fuggita via mare e poi stabilitasi in Germania, l’Olympic Solidarity Programme garantisce supporto per continuare l’allenamento e gli studi. Il secondo gruppo è formato dagli atleti e dalle atlete, specializzati nell’atletica (fondo e mezzofondo), che si allenano a Ngong, nel Kenya meridionale al Tegla Loroupe Refugee Training Centre. Provengono dai campi profughi dell’Africa centrale e li segue Tegla Loroupe, tre volte campionessa del mondo della mezza maratona, che a settembre 2015 ha stretto un accordo con il Programma di Solidarietà Olimpica. Il terzo gruppo, invece, è composto da 26 atleti individuati dai Comitati olimpici dei Paesi in cui hanno ottenuto asilo e dove si allenano, grazie al Refugee Athlete Support Programme, creato dopo Rio 2016, che li supporta con una borsa di studio: di questo gruppo fanno parte anche i ragazzi che Niccolò Campriani sta allenando a Losanna nel tiro a segno.

Atlete e atleti che praticano sport diversi, dal taekwondo al badminton, passando per ciclismo e pugilato, le cui storie raccontano la globalità del dramma dei rifugiati. Per esempio la ciclista Masomah Ali Zada: viene dall’Afghanistan, ha coltivato la sua passione a Kabul, insieme alla sorella Zahra, tra difficoltà e pregiudizi. Una storia scovata dai media francesi e che colpisce la famiglia Communal la quale, dopo avere contattato le due sorelle su Facebooke averle conosciute in una gara in Francia, riesce a far loro ottenere i documenti per farle trasferire con la famiglia in Bretagna dove oggi le allena Thierry Communal. Una vicenda da romanzo che ha ispirato anche un libro: Le piccole regine di Kabul.Masomah sogna Tokyo, lo stesso obiettivo che, dalla Svizzera, insegue Habtom Amaniel, specialista dei 10mila metri, nato e cresciuto in Eritrea. Durante il servizio militare, essendogli negato il permesso di vedere i suoi parenti, viene imprigionato e fugge. Arriva in Libia dopo aver attraversato il deserto e si imbarca per l’Italia, riuscendo a raggiungere un centro d’accoglienza vicino a Ginevra. Lì, la svolta. Un’allenatrice mette a disposizione dei profughi un campo d’allenamento. Iniziano in quattordici, lui è l’unico che ha continuato. Non ha più rivisto l’Africa, come il berbero di nazionalità marocchina Otmane Nait Hammou, primo rifugiato ad aver partecipato a un Mondiale di cross, emigrato in Francia per studiare e poi, impossibilitato a tornare, in Svezia, o come Dorian Keletela, orfano e nipote di una oppositrice del regime della Repubblica del Congo, arrivato adolescente in Portogallo dove si è fatto notare come speranza dello sprint.

A volte però non è l’Europa il luogo dove coltivare il sogno olimpico. È il caso di Wael Fawaz Al-Farraj, classe 2002, scappato da Homs in Siria e rifugiatosi insieme alla famiglia nel campo profughi di Al Azraq in Giordania, lì dove la Taekwondo Humanitarian Foundation e la ong Care proponevano un programma dell’arte marziale coreana. Per Wael è amore a prima vista. Dopo pochi anni è già cintura nera e partecipa alle gare, con buoni risultati. E ora l’orizzonte è Tokyo. (Roberto Brambilla – Avvenire)

Temi: