“Cammina umilmente con il tuo Dio”: una testimonianza missionaria

18 Marzo 2020 – Loreto – L’immagine mi ha sempre colpito. Quella del dialogo come un ponte che si oltrepassa per entrare nel territorio dell’altro, per poi rientrare, sano e salvo, nella propria terra. Ritornare, tuttavia, trasformato, cambiato. Vi trovo il valore della curiositas, un’attitudine che mi ha sempre inseguito e stimolato. L’attenzione e l’interesse per un altro mondo, per altre culture mi hanno accompagnato a lungo e in varie occasioni. E mi ricorda che chi ama veramente la propria cultura (per me la cultura veneta, con tutti i suoi sapori, dissapori e valori) riesce a valorizzare la cultura dell’altro e comprendere quanto l’altro la possa amare.

Questa apertura di cuore e di mente all’alterità mi sembra una qualità essenziale del carisma scalabriniano. Anche se il nostro carisma muove i suoi primi passi dal “principio di identità “, dalla cura e dall’interesse per  “i nostri”, per la gente della nostra terra, della nostra lingua e cultura. Ma l’apertura all’altro sa costruire degli esseri “porosi”, non impermeabili. Sensibili, empatici e capaci di dialogo.

Ricordo ancora con riconoscenza l’ormai lontana esperienza fatta nel primo anno di teologia all’Università teologica di Friburgo, dove mi trovavo: un viaggio di studi in Cina e Giappone. Esperienza intensa, accuratamente preparata durante un anno dal Dipartimento di Missiologia e da noi studenti. Sì, mettersi in ascolto e in dialogo con una civiltà altra, totalmente differente, esige tempo. Mi ha dato la convinzione che l’intelligenza non è tanto il riempirsi di nozioni e di conoscenze, quasi un insediarsi in una torre d’avorio, rifiutando forse il novum, la sorpresa e l’alterità. Quanto, piuttosto, il trovarsi sempre sulla pista di decollo, pronti a partire… di fronte a ogni evento o incontro. Non restare, quindi, accampati sulle proprie posizioni, ma essere disposti a mettersi in cammino con l’altro, per ascoltare le sue ragioni di vita. La chiamerei “mobilità del pensiero” e la trovo una grande dote scalabriniana, una premessa ad ogni dialogo. Un vero cammino di Emmaus, in fondo, l’arte di farsi interrogativo…

Dal punto di vista della fede e della religione, invece, scoprivo che non si poteva dirsi veramente “cattolici” se non si conosce la religione di milioni e milioni di altri esseri umani. Meditare tra i monaci buddisti zen per ore, tutti insieme allineati di fronte alle pareti del monastero fu esperienza intensa, esigente, indimenticabile. Come rivestirsi di un’altra umanità, di un’altra spiritualità. Ammirare, poi, quei paesaggi montuosi tipici di laggiù, che sfumano su orizzonti e profili di montagne azzurrine, impercettibili, all’infinito… quasi facendo comprendere come il mistero fa parte della realtà. Ed è questa una regola d’oro per l’antica cultura cinese, innervata profondamente nel principio ying e yang, a cominciare dal respiro. Dove l’espirazione, lo svuotarsi, ne è movimento chiave, fondamentale. La respirazione acquista in Oriente una valenza fisica, psichica e perfino spirituale. Punto di partenza sempre il vuoto, il silenzio. Un essere pieno di sè, per esempio, non avrà nulla da imparare, alcun interesse al dialogo… Come scalabriniano, questo senso del mistero come parte della realtà, dell’ascolto, della kenosi e dello sguardo contemplativo mi è rimasto dentro, quasi in un dialogo interiore. Il trovarmi di fronte a una cultura antichissima sorta migliaia di anni prima di Cristo, mi faceva vivere il senso dello stupore di fronte all’alterità. Non di giudizio o di condanna. Ma di apertura dei sensi, di fronte a qualcosa più grande di sè. Mi faceva comprendere, pure, come una cultura è semplicemente un punto di vista – perchè situata in uno spazio/tempo particolari – sulla vita, la morte, il tempo, l’educazione, il corpo e l’amore, … maturato per secoli nel cammino di un popolo. Come, in un altro caso, l’osservare una città : lo si può fare da tre punti di vista differenti, dal di dentro, dall’alto o dal di fuori, punti tutti ugualmente importanti e complementari. Ridursi a un unico punto di vista, impoverisce lo sguardo. In questo senso, il carisma scalabriniano tenderà a valorizzare la cultura di una comunità. Ma, allo stesso tempo, a relativizzarla. A metterla in relazione con altre, con altri punti di vista. “La differenza crea il senso”, ricorda una regola d’oro della semiotica. E così, penso ai giovani universitari della nostra Missione, che, dopo aver compreso questo, venivano spontaneamente a chiedermi – per una loro personale iniziativa, progetto o idea – il mio punto di vista, anche se esterno. Non assolutizzare il proprio punto di vista, ma ricostruirlo continuamente con l’apporto dell’altro, dell’alterità, lo trovo una grande conquista, un’esemplare prova di umiltà, un tratto interessante del carisma.

La missione, poi, mi ha portato a vivere una decina d’anni in un Centro di accoglienza a Ecoublay, in regione parigina, per gruppi di giovani di varie nazionalità, di parrocchie, di movimenti o di migranti. Era il tempo di vivere il dialogo nelle sue dimensioni di spogliazione di sè, di far posto all’altro, di disponibilità senza limiti. Trovando, pure, i modi e i tempi per far conoscere il senso di un carisma, di entrare in dialogo. Ho imparato a coltivare la nostra humilitas, a mettere in valore l’altro nell’atteggiamento di servizio, a praticare in ogni suo aspetto l’ospitalità. A far sentire l’altro “a casa sua”, nota tipica e benefica della sensibilità scalabriniana, nella sua erranza. Erano i miei primi anni di missionario e le energie, dieu merci! non mancavano, assieme al DNA veneto come attivismo e contatto umano.

Mi sono trovato per vari anni in terra francese e francofona in comunità di emigranti, – italiani, portoghesi e capoverdiani – come leader. Questa figura la definirei “colui che cammina accanto, un passo innanzi”. Colui che accompagna una comunità, ma che la precede con lo sguardo, il pensiero, la progettualità, non restandovi in full immersion. È vero, il ritrovarsi per una comunità di emigranti è vitale, nel duplice movimento di dispersione e di comunione, come sistole e diastole nel movimento del cuore. Ritrovare i propri simili, in fondo, è ritrovare se stessi. Ma dovrebbe a volte aggiungersi anche una dinamica di avanzamento verso il Regno, ritrovandosi con altri, di ogni cultura e nazionalità. Come missionario, trovavo importante avere una presenza nella comunità migrante, ma anche nella comunità di accoglienza, con una duplice responsabilità e reconnaissance. Una posizione scomoda, ambivalente, dialogica, ma particolarmente feconda. Dove le attese, le speranze, i progetti degli uni potevano, così, intessersi con quelli degli altri. Dove l’incontro con l’altro diventa il senso della propria opera, nel costruire Chiesa, cioè una comunità di comunità. Ricordo la gioia di un vescovo francese quando per la metà della sessantina di giovani cresimandi erano i nostri portoghesi, dopo un lungo cammino di preparazione tutti insieme, affiancati da animatori per metà francesi e portoghesi. Adulti e giovani di comunità differenti erano, così, impegnati a tessere le fila della comunione, del dialogo tra sensibilità spirituali diverse : i francesi più riflessivi, i portoghesi più oranti. Maturavo la convinzione che il missionario scalabriniano ha il compito del direttore d’orchestra, colui che fa suonare strumenti, talenti differenti e ne sa creare l’armonia. Fa vivere un insieme, la sua presenza fa nascere l’unità, la sua missione è la comunione delle diversità. Mettendo in valore, così, una minoranza, ma relativizzando una presenza preponderante. Questo tratto mi ha sempre accompagnato e stimolato: la valenza spesso profetica e pedagogica di una minoranza, qualsiasi essa sia. E ció puó connotare, pure, il nostro stesso carisma.

Il passaggio, poi, dal mondo francofono a quello anglosassone, da Ginevra a Londra, non fu semplice. Mi diede, tuttavia, altre possibilità, aprì altre finestre nella dinamica del dialogo con l’altro in un nuovo contesto multiculturale e multireligioso. Come il vivere nel nostro quartiere di Brixton Road l’annuale interreligious walk, quando buddisti, musulmani, induisti, anglicani del quartiere si visitano reciprocamente in una marcia comune nei differenti luoghi di culto del quartiere (templi, chiese, pagode o moschee…) per far esprimere ad ognuno il senso di una presenza e gli aspetti della propria comunità. Originale pareva, per davvero, spiegare il carisma di Scalabrini a dei buddisti o a dei musulmani convenuti nella nostra Missione cattolica di migranti italiani, portoghesi e filippini. Raccontando che all’origine vi era la missione cattolica degli italiani, poi, allargando la sua tenda, accoglieva una comunità filippina e successivamente una portoghese. Ognuno trovandosi nei vari spazi come “own at home”, ma svolgendo anche iniziative o processioni comuni : il miracolo di sentirsi tutti migranti !

Le religioni o le culture si sono costruite come realtà autonome, sicure di sè, centrate in sè stesse. Come un superbo grattacielo ogni religione ha sviluppato radici profondissime, grandi fondamenti e svetta nel cielo con i suoi insegnamenti, i suoi testi sacri. Ma oggi, in cui l’uomo si incontra con l’altro in maniera nuova, rapida, sorprendente, ogni religione è invitata a farsi tenda : spazio aperto, accogliente, ricco di senso per l’umanità. Dove si viva, in fondo, il mistero di Dio e il suo incontro.  “Per comprendere l’altro non bisogna conquistarlo – scriveva Louis Massignon – bisogna farsi, invece, suo ospite : la verità si trova nell’ospitalità”.

Non mi sarà facile dimenticare l’invito a Chennai (Madras), metropoli di 7 milioni di abitanti (India), dell’anziano pastore anglicano indiano nostro vicino, con cui si collaborava, Rev. Canon John, e trovarmi a mezzanotte dell’ultimo giorno di dicembre in una cattedrale anglicana stracolma per la preghiera del thanksgiving, mentre lui stesso teneva il sermone. E con lui conoscere parrocchie, associazioni e iniziative di solidarietà del mondo anglicano, in terra indiana. Il carisma scalabriniano mi sembrava spingere sempre alla frontiera, con la sua valenza di “ponte-fice” del costruire ponti, del coltivare l’ospitalità. La frontiera è luogo teologico, che relativizza le costruzioni dell’essere umano, l’assoluto delle sue conquiste, la centralità totalizzante del suo mondo. La frontiera è luogo per eccellenza dell’incontro e del confronto, dell’autonomia e della simbiosi, dell’identità e dell’alterità che si danno appuntamento. In fondo, è occasione di scoprire nell’altro un dono e “lo straniero come un fratello  che non hai mai incontrato” dice un proverbio africano.

Tuttavia, come scalabriniano dove mi sembra avere vissuto maggiormente il dialogo e l’incontro è stato nel Maghreb, terra di emigrazione : emigrazione di partenza, di arrivo e di transito. Ho avuto la possibilità di passarvi anche periodi relativamente lunghi, o di accompagnare nel Sahara per il ritiro quaresimale per vari anni gruppi di giovani, figli di emigranti, ma nati all’estero. Educarli, così, all’incontro con l’alterità, al dialogo con un’altra cultura. Era per loro fare il salto mortale dei loro genitori nell’avventura migratoria : cambiare mondo. Entrare nel mondo musulmano, dove ogni città è come un grande monastero, dove lo spazio e il tempo sono segnati dalla presenza di Dio. Avere, così, come facilitator – ma anche oasi di riposo, di accoglienza e di scambio – piccole comunità cristiane in terra d’Islam. Veri discepoli del Signore sulla terra del Profeta. Coscienti della loro fragilità, ma anche della forza del dialogo, della preghiera e dello spirito di servizio, vissuti senza misura. Consapevoli, pure, che l’unico vangelo che i musulmani possono leggere è la loro stessa vita. I nostri giovani comprendevano, in questo modo, come viaggiare non era tanto “conoscere nuove terre, ma avere nuovi occhi” (Proust). Si celebrava, allora, l’eucaristia sulla duna più alta, nel silenzio più assoluto del deserto del Sahara… una messa sul mondo! Come dimenticare quando al momento del perdono posavano l’orecchio su questa sabbia rossa, in pieno Sahara, per auscultare la terra… Era per provare a sentire il pianto di milioni di uomini, di donne e bambini, di esistenze infelici sulla terra, impossibili da vivere, miserabili, sradicate dagli eventi e forse migranti. Per chiedere perdono a Dio di avere un cuore insensibile alle tragedie del mondo : Signore, pietà ! Al momento della pace era vedere questi giovani affondare le mani e le braccia il più possibile nella sabbia tenerissima, nel tentativo, in mezzo al deserto, di dare la mano a tutti gli uomini della terra, per esprimere le lunghe solidarietà che avrebbero voluto far nascere… Penso con commozione a questi tanti giovani che il deserto ha consolidato o trasformato nei loro aspetti più sani e più belli. Alcuni sono ritornati in Africa per un periodo di volontariato, altri, per lo stesso motivo, in Brasile,… Una lezione del deserto, che in loro ha saputo fiorire e dare frutto. Un dialogo interiore con se stessi e con l’alterità, che si è fatto realtà.

“La Chiesa del Marocco – ci spiegava il vescovo di Rabat – è insignificante per numeri, ma significativa. I cattolici, tutti stranieri (ma non stranieri a questo popolo !) provenienti da 100 nazionalità differenti, sono 25-30mila su 37 milioni di musulmani, pari allo 0,08%. Come dice il Papa, non è un problema essere pochi, il problema sarebbe essere insignificanti, essere sale che ha perso il suo sapore, essere luce che non illumina. Il problema è non essere autentici”. Una Chiesa a servizio del Regno di Dio, non di se stessa, aggiungeva, poi, con forza, non autoreferenziale e questo insieme ai musulmani stessi, per costruire tutti la pace, la dignità della donna, un avvenire migliore. Insomma, una Chiesa del dialogo e dell’incontro, come si autodefinisce volentieri e con convinzione. Particolarmente impegnata nella sua passione e compassione per le migliaia di migranti subsahariani, che, d’altronde, fanno rinascere le comunità cristiane in terra d’Islam. Un lavoro immane per la Caritas Maroc, ma anche in tutte le parrocchie. In quella di Oujda, per il sovrafollamento, trovavo ogni volta una coppia di subsahariani accampata anche in sacrestia, mentre sul tappeto dell’altare vi era sempre disteso qualcuno nel sonno, appena arrivato da un lungo viaggio e crollato per la fatica. Mi resta profondamente nello spirito questa fraternità universale, che proviene dalla spiritualità di Charles de Foucauld, eredità per tutto il Maghreb e che struttura l’anima di questa Chiesa : i musulmani sono fratelli e sorelle da amare, semplicemente. I migranti, invece, sono due volte fratelli, anche per la loro doppia marginalizzazione in questo Paese musulmano (essere neri ed essere cristiani). Quanto prezioso per il missionario scalabriniano il sentirsi fratello universale, al di là di appartenenze etniche, culturali, religiose ! Risponde, anche, all’affermazione del Fondatore che “per il migrante la patria è il mondo”. E l’umanità la sua famiglia.

“O caminho se faz caminhando”, infine, mi sembra profondamente un’assioma scalabriniano. E dopo una lunga itineranza mi sembra di aver costruito in me una identità plurale, fatta di culture, di spiritualità e di volti incontrati. In dialogo continuo tra di loro. A volte mi risuonano le parole del mistico arabo Ibn Arabi : “Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma: è un pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, un tempio per gli idoli, la Ka’ba del pellegrino, le tavole della Torah, il libro del sacro Corano. Io seguo la religione dell’amore, quale sia la strada che prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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