Torino: Quando una diocesi decide di accogliere

19 Agosto 2019 – Torino – Vogliono i migranti? Li ospitino a casa loro, ripete ancora, di tanto in tanto, il refrain aggressivo e vuoto. Senza curarsi di quante famiglie, poche o tante che siano, a “casa loro” già lo fanno. Ma accolgono “a casa loro” anche realtà più complesse, come ad esempio le diocesi, intese come comunità e non solo come istituzioni. Una di queste è la diocesi di Torino.

Fra le iniziative di accoglienza abitativa che essa ha promosso o a cui partecipa, ma anche per gli organismi più diversi attivi sul territorio (Pastorale migranti diocesana, parrocchie, istituti religiosi, associazioni, cooperative, famiglie e singoli che hanno deciso di impegnarsi in prima persona…), non è facile tirare le fila. Ma nelle settimane in cui si è completata una tappa importante del superamento dell’occupazione dell’ex MOI di Torino, con lo svuotamento delle ultime due palazzine nell’ambito del progetto inter istituzionale “MOI, Migranti un’opportunità di inclusione”, ecco qualche dato e qualche considerazione dopo gli anni della cosiddetta “emergenza migranti” (e ai tempi dei decreti immigrazione e sicurezza).

In questo periodo fanno o hanno fatto capo alla diocesi subalpina centinaia di posti d’accoglienza sostenuti interamente con fondi propri, o diocesani o della CEI presso decine di parrocchie, appartamenti, istituti o altre strutture; i 28 posti del progetto SPRAR di accoglienza in famiglia “Rifugio diffuso“; la partecipazione a un progetto con fondi FAMI per l’accoglienza di decine di minori non accompagnati; e ancora, centinaia di posti in CAS allestiti in appartamenti, istituti religiosi e, di nuovo, in altre strutture. Come Ufficio Migrantes di Torino – puntualizza a Vie di fuga Sergio Durando, direttore di questo ufficio diocesano -, sull’accoglienza abitativa “lavoriamo soprattutto per la connessione e l’attivazione di reti e risorse, umane, economiche e immobiliari per far fonte ai bisogni crescenti di diverse categorie di persone”. Si va dall’accompagnamento in percorsi di autonomia abitativa per nuclei famigliari “fragili” (non solo immigrati) all’alloggio di studenti universitari extra-UE (un’ottantina, accolti in 30 appartamenti); da “Rifugio diffuso” (di cui la Migrantes diocesana è “soggetto attuatore“) alla promozione-supporto per l’accoglienza diffusa nelle parrocchie e in comunità religiose; dalla messa a disposizione di immobili per progetti di accoglienza non profit alla partecipazione al progetto ex MOI in rappresentanza della Diocesi; dalla collaborazione per l’apertura di una comunità per MSNA a San Mauro Torinese (un’esperienza conclusa nello scorso marzo) alla promozione del progetto sperimentale unico in Italia per la “residenza transitoria” nata dall’occupazione di via della Salette, a Torino; fino alla partecipazione ai Corridoi umanitari per i rifugiati dalla Siria e dall’Etiopia e all’ospitalità data a due migranti sbarcati nel 2018 dalla nave Diciotti.

Una realtà con cui la Pastorale migranti torinese collabora è la Terremondo di Torino, nata nel 2003 dall’esperienza dell’associazione ASAI. Nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, questa cooperativa ha lavorato e continua a lavorare con giovani e famiglie migranti, e a supporto di parrocchie e istituti religiosi.

Fra 2016 e 2018, con una cinquantina di posti complessivi in questo settore d’attività, gli operatori di Terremondo hanno seguito circa 150 persone. «Possiamo dire che abbiamo aiutato ad inserirsi in Italia tre quarti di loro – tira le somme il presidente della cooperativa Luca Mastrocola -, fra accompagnamenti all’autonomia, verso inserimenti nello SPRAR, con il proseguimento di accoglienze abitative…».

Una delle “formule” amministrative adottate in questi progetti è stata quella dei CAS, i centri “straordinari” che fanno capo alle Prefetture. «Questa esperienza è stata faticosa e per certi versi positiva – commenta ancora Mastrocola -, ma non l’abbiamo più proseguita».

«Negli anni dell’”emergenza” – spiega – abbiamo visto lavorare gestori in modi molto diversi. Quanto a noi, abbiamo puntato su un’integrazione vera, piccoli gruppi di ospiti, non più di 10 per gruppo, in alloggi, con un numero sufficiente di operatori, con la responsabilizzazione verso l’autonomia, con formazione e orientamento al lavoro, con il coinvolgimento di territorio, volontariato e cittadini, avendo come riferimento il modello dello SPRAR. Ma oggi per gli ospiti che l’Italia inserisce nei CAS le chance sono drasticamente diminuite: a causa della sostanziale abolizione della protezione umanitaria sono in gran parte “diniegati” e dopo un iter di due, due anni e mezzo finiranno per ricevere un provvedimento di espulsione, ma di certo non se ne andranno, diventando così degli irregolari. Personalmente lo ritengo fallimentare e pericoloso. Comunque sia, anche questo ci ha spinto a lasciare l’esperienza dei CAS».

Fine delle convenzioni, ma non è detto che sia la fine delle accoglienze. Ad esempio, nonostante il mancato rinnovo di una convenzione CAS, quest’anno l’accoglienza parrocchiale di Rivoli (uno dei comuni dell’hinterland torinese) con il supporto di operatori di Terremondo prosegue perché la parrocchia e la stessa Terremondo si sono fatte carico direttamente dei costi. “La vicenda del MOI l’abbiamo vissuta – come Diocesi e come Migrantes in particolare – come una sfida e un’opportunità che poteva segnare la vita della nostra città e costituire anche un modello per l’intero Paese. C’è voluto del tempo: fin dall’inizio abbiamo deciso di non procedere allo sgombero forzato, ma di accompagnare le persone perché potessero comprendere quanto il progetto che avevamo stabilito fosse vantaggioso per dare dignità e speranza in un futuro migliore alle numerose persone coinvolte”, ha detto Mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, il 30 luglio, giorno della liberazione delle ultime due palazzine occupate all’ex MOI di Torino, con il trasferimento ordinato di circa 400 persone.

Per loro la vera sfida del progetto “MOI, Migranti un’opportunità di inclusione” inizia ora: saranno coinvolte in percorsi di formazione professionale, inserimenti lavorativi e abitativi, per favorirne l’inclusione e l’autonomia. I percorsi iniziano anche per quelli che sono stati accolti provvisoriamente nei centri di Settimo Torinese e Castel d’Annone (Asti): in autunno, dopo un bando del Comune, saranno ricollocati in appartamenti come gli altri.

Il progetto, unico in Italia, è nato con un protocollo d’intesa inter-istituzionale firmato nel 2017 da Comune e Città Metropolitana di Torino, Regione Piemonte, Prefettura di Torino, Diocesi di Torino e Compagnia di San Paolo (ma contributi finanziari sono giunti anche dal ministero dell’Interno) per affrontare l’emergenza abitativa e lavorativa degli abitanti delle palazzine dell’ex MOI. Queste ultime, costruite per il villaggio delle Olimpiadi Invernali del 2006 e rimaste poi abbandonate, erano state occupate a partire dall’“emergenza” del 2013 da beneficiari di provvedimenti di protezione rimasti senza accoglienza: forse l’occupazione più grande d’Europa.

La liberazione dello scorso 30 luglio è stata preceduta (in un percorso in cui non sono mancate difficoltà e contestazioni) dalla liberazione degli interrati e di altre due palazzine dell’ex villaggio olimpico durante quattro interventi fra il novembre 2017 e il marzo 2019, che hanno portato al trasferimento di 424 persone: fra loro, quelle oggi in accoglienza sono 301 (vi sono stati abbandoni ma anche raggiunte autonomie e passaggi in CAS), presso strutture del terzo settore o legate alla Diocesi. Sempre ad oggi sono stati promossi 88 tirocini e 218 formazioni professionali e sono stati attivati 132 contratti di lavoro. Inoltre 30 persone hanno affittato autonomamente una casa attraverso un accompagnamento alla locazione. Nella scorsa primavera gli accolti dal progetto che avevano raggiunto l’autonomia erano già una sessantina. Per le quattro palazzine liberate si prevede ora una riqualificazione e una destinazione di social housing. (Giovanni Godio)

 

 

 

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